In 3^media è il ceto a decidere che scuola superiore farai.

tratto da www.linkiesta.it

Stella (tutti i nomi sono di fantasia ndr) ha 14 anni e siede a un banco della Scuola media Arcadia del Gratosoglio, estrema periferia Sud di Milano. «L’anno prossimo andrò al liceo scientifico. Mi piacciono matematica e scienza e da grande voglio lavorare come guardia parco, oppure veterinaria». La professoressa di Lettere Rosa Donatacci, che ha coordinato le attività di orientamento della scuola, spiega invece che il consiglio orientativo per Stella, mamma baby sitter a ore e papà impiegato con la licenza media, era diverso. «Noi insegnanti e la mamma di Stella avremmo preferito piuttosto un liceo delle scienze umane all’Agnesi. Stella è brava ma è anche molto empatica, e quella è la stessa scuola frequentata da sua madre».

Nella classe della scuola media del Gratosoglio, su 16 ragazzi presenti, quasi tutti figli di operai, artigiani, casalinghe e commercianti, solo cinque frequenteranno l’anno prossimo lo scientifico, nessuno il classico, tre il linguistico, altri tre un istituto tecnico e cinque una scuola di formazione professionale (Cfp). Luca, figlio di due ingegneri, andrà allo scientifico. Romina, papà idraulico, mamma al lavoro in una mensa, farà il Cfp.

Piazza Ascoli, non troppo distante da Porta Venezia, Milano. Al terzo piano della Scuola Tiepolo, tra i banchi di una delle terze c’è anche Carlo. Ha la stessa età di Stella, ma genitori entrambi architetti con uno studio in proprio. «Carlo», racconta la professoressa di Lettere Silveria Schiavo, «non studia molto, spesso non fa i compiti o dimentica il materiale. Per questo, di fronte alla preferenza dei genitori per un liceo classico, abbiamo piuttosto consigliato un liceo delle scienze umane». E invece, l’anno prossimo Carlo andrà al Parini, lo storico liceo classico milanese. «I miei genitori mi dicono che pone le basi, apre molte strade, dà più sbocchi professionali. Quando loro devono scegliere i tirocinanti preferiscono quelli che hanno fatto il classico o lo scientifico perché hanno più preparazione».

Su 28 ragazzi in aula, quasi tutti figli di professionisti, insegnanti universitari e dirigenti, 23 si divideranno tra classico e scientifico, due hanno scelto il linguistico, solo tre faranno un istituto tecnico, uno il professionale. Caterina ad esempio farà ragioneria. «I suoi genitori hanno una grossa pasticceria, e potrà dare una mano nell’amministrativo», spiega l’insegnante.

A 14 anni i giovani italiani di domani si preparano ad entrare nel terzo ciclo di istruzione scolastica. Finite elementari e medie, devono decidere a quale ciclo di scuola superiore iscriversi. Ed è in questo primo snodo che l’Italia misura la sua capacità di offrire pari opportunità educative agli studenti e fare della scuola un luogo in cui appianare le disparità sociali.

Ma basta entrare in una qualsiasi terza media del centro o una della periferia milanese per accorgersi che ancora oggi, nella maggior parte dei casi, «il destino scolastico futuro degli alunni viene progressivamente segnato dalle origini sociali, delle quali non portano alcuna responsabilità». È il commento del professor Daniele Checchi, docente di Economia politica dell’Università degli studi di Milano a margine di una delle numerose ricerche dedicate al tema, con cui ha mostrato, tra le altre cose, che gli insegnanti sono i primi a farsi influenzare dalla classe sociale di appartenenza del ragazzo nei consigli orientativi. Il tutto in un sistema di istruzione secondaria diviso per indirizzi ben distinti tra loro e dove la scelta della “filiera”, come la definisce Checchi, (generalista, accademica e professionale) avviene tra i 13 e i 14 anni, «un’età in cui l’influenza dei genitori è ancora forte».

Nel 2008 ha studiato un campione di studenti lombardi di terza media. E ha analizzato l’influenza di tre fattori sulla scelta della scuola superiore: background familiare, competenze e voti, contesto sociale. Lo ha fatto in tutte e tre le fasi della scelta: il momento dell’orientamento scolastico, la preiscrizione (ora non c’è più) e l’iscrizione definitiva. Si è accorto, ad esempio, che già nella fase di orientamento, «gli insegnanti nel formulare i loro consigli non si limitano ad una valutazione delle risultanze scolastiche oggettive dei ragazzi (come risulterebbe dai voti e dai test attitudinali), ma tengono anche conto della famiglia di provenienza». Cioè, sono gli stessi insegnanti ad essere per primi sensibili «alle pressioni direttamente o indirettamente provenienti dall’ambiente circostante». Del fenomeno, Checci propone due letture. Una positiva, che vede gli insegnanti «preoccupati che le famiglie non riescono fornire il supporto economico necessario a intraprendere carriere più lunghe e rischiose», l’altra, negativa, è che gli insegnanti assecondano troppo le aspirazioni dei genitori.

Dal grafico «si nota che il figlio di un genitore laureato ha una probabilità nulla di ricevere un orientamento verso la formazione professionale e molto raramente (meno del 10%) una indicazione di un istituto di formazione professionale. È invece possibile l’opposto: il figlio di genitori analfabeti (che sono meno del 2% del campione) ha una probabilità su cinque di ricevere l’indicazione di un liceo».

Valutando il peso delle competenze dei ragazzi nei consigli di orientamento dei professori, Checchi sottolinea come «un buon possesso delle competenze dei ragazzi risulta cruciale nel differenziare la carriera: la probabilità dell’orientamento verso la formazione professionale declina con il crescere delle competenze, mentre si accresce inversamente la probabilità di essere indirizzati verso i licei». Eppure, sottolinea il professore, «anche in questo caso il titolo di studio dei genitori continua a rimanere rilevante».

Al momento della preiscrizione, «notiamo – spiega Daniele Checchi – che sia i figli di genitori laureati che i figli di genitori che hanno completato l’obbligo tendono ad essere spinti all’insù, probabilmente per motivazioni differenti: i figli dei genitori con l’obbligo ricevono una pressione legata al desiderio del “riscatto sociale” per una scolarità mancata nella generazione dei genitori; i figli dei genitori laureati invece vengono spinti dall’idea che l’ambiente familiare possa compensare un eventuale scarso risultato scolastico». Ritornando alla Figura 1, è possibile notare come in fase di preiscrizione e di iscrizione, l’effetto familiare «estremizza» le decisioni, «alzando sia la probabilità di scegliere una scuola di formazione professionale che di scegliere un liceo».

«Possiamo quindi parlare di un sistema scolastico efficace nel selezionare gli individui verso le carriere scolastico-lavorative più adeguate alla loro preparazione?», si chiede Checchi. La risposta è negativa. «La scelta di indirizzo degli studenti parte da una allocazione poco oggettiva derivata dall’orientamento degli insegnanti e viene ulteriormente distorta (in senso di rafforzamento della componente familiare) nelle scelte di preiscrizione dei figli». Un destino, quello scolastico, «segnato progressivamente dalle origini sociali, che si riflettono «nella diversa disponibilità ad intraprendere carriere scolastiche più o meno esposte al rischio di fallimento». «La ricerca accademica mostra come la ricchezza familiare continui ad essere un fattore determinante nelle scelte scolastiche, in quanto le famiglie più ricche sono caratterizzate da una minore avversione al rischio».

Il professor Francesco dell’Oro, responsabile del Servizio Orientamento del comune di Milano, offre un dato su tutti. Tra le 584 richieste di aiuto di ragazzini delle scuole superiori ricevute nell’ultimo anno dal suo ufficio, il 56 per cento proveniva dai licei classico e scientifico. Adolescenti desiderosi di cambiare indirizzo scolastico. «O i ragazzi fanno scelte non consapevoli – commenta Dell’Oro – oppure i genitori fanno troppe pressioni. Mi accorgo che spesso è vera la seconda, soprattutto quando si tratta di professionisti: ingegneri, medici, i più in difficoltà nell’accettare per i figli un corso di studi diverso dal liceo classico o scientifico e prevenuti addirittura anche verso i licei delle scienze umane».

«Si considerano gli istituti tecnici scuole di serie b. Ed è un paradosso. Perché chi ha un livello culturale medio-alto, dovrebbe avere l’apertura mentale sufficiente a uscire da un sistema di gerarchie scolastiche del tutto opinabile. Anche gli istituti tecnici, se fatti bene, offrono la preparazione necessaria per frequentare l’università».
Piuttosto, precisa il professore, è il tasso di abbandono scolastico a dimostrare le disuguaglianze di opportunità educative che ancora permangono nella scuola italiana. E a mostrare che la scuola, per come è fatta, non funziona. Dell’Oro cita il rapporto Noi Italia 2013 dell’Istat, dove emerge che il 18,2 per cento dei 18-24enni ha abbandonato gli studi prima di conseguire il titolo di scuola media superiore, contro il 13,5 per cento dei paesi Ue (il dato si riferisce al 2013).

Sempre secondo l’Istat, Annuario statistico italiano 2012, a conclusione del secondo ciclo di istruzione, il 97,9 per cento degli studenti ammessi a sostenere l’esame di Stato consegue il diploma di istruzione secondaria superiore nel 2010. Ma la riuscita all’esame di Stato è più elevata tra gli studenti dei licei classici e scientifici (99,1 e 99,0 per cento), mentre è più bassa tra gli studenti dei licei linguistici (95,2 per cento), degli istituti tecnici (97,0 per cento) e degli istituti professionali (97,1 per cento).

«La scuola non deve essere pensata solo per i più bravi», incalza Dell’Oro, «deve riuscire ad accompagnare fino alla fine del percorso anche i mediocri. Ma il nostro sistema, così imbrigliato in una rigida divisione delle materie, non aiuta i ragazzi a scoprire passioni e capacità. Per questo servirebbe almeno un intero anno orientativo, in cui ciascuno si metta alla prova in più materie, per scoprire con maggiore autonomia dai genitori il percorso più adatto. Altrimenti, alle superiori continueremo a registrare un forte disagio scolastico», chiude Dell’Oro.

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