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Proposti tagli alla scuola pubblica del 40%, con la firma della ministra Giannini 11/24/15

Che la scuola pubblica versi da anni in pessime acque lo sapevamo. I governi che nel frattempo si sono succeduti non l’hanno certo aiutata a risollevarsi, a prescindere dal loro ...


Che la scuola pubblica versi da anni in pessime acque lo sapevamo. I governi che nel frattempo si sono succeduti non l’hanno certo aiutata a risollevarsi, a prescindere dal loro colore politico. Ma fa comunque impressione scoprire che un libro apologetico della scuola privata sia stato corredato dalla prefazione della ministra dell’istruzione Stefania Giannini, che non è esattamente abituata a scriverne. Sarà forse perché, nel testo, l’espressione “Buona Scuola” ricorre diverse volte. Due dei tre autori l’avevano del resto già usata in un libro del 2010, La buona scuola pubblica per tutti. Statale e paritaria.
Titolo profetico, non c’è che dire.

Non ho avuto modo di leggere quel libro, ma i contenuti sembrano più o meno gli stessi di quello pubblicato pochi giorni fa. Gli autori del testo che ha attirato l’attenzione di Stefania Giannini sono Anna Monia Alfieri (delle Suore di Santa Marcellina), Marco Grumo (docente dell’Università Cattolica) e Maria Chiara Parola (componente della commissione scuola della curia di Milano). Le fonti citate sono a loro volta quasi esclusivamente cattoliche. Il volume esalta la necessità di riconsegnare alla famiglia il suo “ruolo principe nel campo educativo”. La famiglia “alla cattolica”, ovviamente, e fin dalla prima pagina: “Se la Storia nasce con la scrittura, la Scuola nasce con la preistoria, con l’uomo e con la donna. E con il primo bambino. La Scuola nasce con la Prima Famiglia della Storia”.

Anche il titolo dato a tale volume è emblematico: Il diritto di apprendere. La tesi centrale del libro è che lo si nega, se si negano i finanziamenti alle scuole private. Cospicui, ovviamente. In nome della sussidiarietà, inserita nella Costituzione nel 2001 con l’ormai famigerato articolo 118, e dell’altrettanto discutibile legge 62/2000 sulla parità scolastica.

Anche a costo di forzarne il contenuto. Nella legge non compaiono mai alcune delle espressioni usate dagli autori: non c’è mai scritto che “la scuola statale e la scuola paritaria sono entrambe pubbliche”, e in nessun punto si parla di “scuola pubblica paritaria” o “scuola pubblica statale e paritaria”, che è invece un’espressione usata – guarda caso – dal segretario dei vescovi italiani, mons. Galantino.

La legge si limita a dire che le paritarie svolgono un “servizio pubblico”. Anche la legge sulla “Buona Scuola” ricorre alla formula “scuole paritarie del sistema nazionale di istruzione”.

Le forzature semantiche hanno ovviamente uno scopo ben preciso: se scuola pubblica e scuola privata hanno identico valore di fronte alla legge, devono di conseguenza essere finanziate allo stesso modo. Difficile, in tempi di finanze pubbliche al collasso. È qui che gli autori estraggono il coniglio dal cilindro: la loro proposta porterebbe a un consistente risparmio di spesa, addirittura diciassette miliardi di euro. Una somma enorme, prontamente enfatizzata in copertina dalla rivista ciellina Tempi.

Il grimaldello per arrivare a tale cifra è il “costo standard di sostenibilità per allievo”, da applicare a tutte le scuole, pubbliche o private che siano. Il costo annuo attuale di uno studente della scuola statale è di circa 7.000 euro: a loro dire può scendere drasticamente, in certi casi persino della metà. E già qui c’è una criticità notevole: per la loro “simulazione”, gli autori si sono basati sui costi di esercizio di sedici scuole paritarie e di cinque statali (che, mi sbaglierò, non sono state nemmeno citate). Ventuno scuole su oltre 56.000: un campione non esattamente rappresentativo.

Gli autori chiedono dunque una riduzione pesante dell’investimento dello Stato nella scuola, oggi di circa 55 miliardi. Le proposte che avanzano sono due. Quella soft prevede che le scuole, tutte, vengano finanziate per l’intero costo standard: in assenza di spostamento di studenti tra i due settori, implica dunque un taglio di circa dieci miliardi alla scuola pubblica e circa cinque miliardi in più per la scuola privata. Se le scuole, pubbliche o private che siano, non ce la faranno, saranno le famiglie a pagare il surplus rispetto al costo standard.

Ma c’è anche la proposta hard. Sempre in assenza di spostamento tra i due settori, implica un maggior finanziamento di “soli” quattro miliardi alla scuola privata, ma tagli a quella pubblica di circa ventuno. Netto ricavo per lo Stato: diciassette miliardi. Prevede che le scuole vengano finanziate per il 100% per le famiglie bisognose (stimate al 20% del totale) e per il 70% per tutte le altre, definite “abbienti”, che dovranno quindi pagare una retta a prescindere, privata o pubblica sia la scuola scelta per i propri figli.

Alle scuole private andrebbero inoltre anche i finanziamenti della pubblica amministrazione per la costruzione di nuove scuole e per la manutenzione straordinaria di quelle esistenti. Immaginabili le conseguenze di quella che definiscono “una equa e sana competizione”.

Non stupisce che, nella loro missione di apostolato, gli autori non prendano in considerazione i costi “immateriali” delle scuole private cattoliche. Che non accolgono volentieri alunni stranieri o disabili.

In cui gli insegnanti o gli studenti gay sono discriminati.

In cui le suore possono minacciare i bimbetti che, se non faranno i bravi, «Gesù farà morire mamma e papà», oppure far cantare loro Faccetta nera.
In cui capita che gli insegnanti siano sottopagati o che siano pagati in nero.
In cui, a differenza di quanto accade negli altri paesi europei (tanto citati dagli autori), i controlli previsti sono pochi, quelli realmente compiuti ancora meno. In cui la qualità del livello di insegnamento è inferiore a quello della scuola pubblica: e non lo sostengo io, ma l’Ocse e lo stesso ministero dell’istruzione.

Il cui obbiettivo esplicito è “formare persone cristiane”. Perché il diritto di educare spetterà pure alle famiglie ma, secondo il Codice di diritto canonico, “il diritto di educare spetta alla Chiesa”.

La scuola dovrebbe essere un luogo dove si insegna a vivere insieme, rispettando le convinzioni altrui. La scuola cattolica vuole invece orientare le coscienze verso la propria dottrina, soprattutto negli ordini di scuola inferiori. Perché finanziarla?

Senza dimenticare che i contributi pubblici che riceve già ora non sono pochi. Gli autori del Diritto di apprendere, per meglio perorare la propria causa, si limitano a ricordare i finanziamenti statali. Ma anche quelli locali non sono affatto lievi: l’Uaar li stima addirittura maggiori, per un totale di quasi un miliardo ogni anno per le sole scuole cattoliche. Uno stanziamento in ulteriore, vertiginosa crescita proprio con la ministra Giannini, grazie all’introduzione del “buono scuola” statale
e alle agevolazioni contenute nella legge sulla buona scuola.

Senza dimenticare che gli istituti paritari di solito non pagano l’Imu.

Ciononostante continuano a piangere miseria: libri del genere servono proprio a sostenere richieste sempre più esose in nome della richiesta di una vera “libertà educativa”. Si riterranno probabilmente liberi solo quando verranno profumatamente pagati per farlo.

Per carità: domandare è lecito. Rispondere con cortesia che le basi per farlo non esistono proprio sarebbe però il minimo sindacale. La ministra Giannini ha invece deciso di avallare tali tesi. Nella prefazione scrive che definire il costo standard di sostenibilità è “un ulteriore passo per impostare correttamente il tema della libertà di scelta educativa”. La spending review si sta per abbattere in modo draconiano sulla scuola pubblica? Le famiglie italiane saranno presto chiamate a pagare le rette per frequentarla?

di Raffaele Carcano, segretario della Uaar. Originariamente pubblicato su Micromega


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