La madre di tutte le riforme 12/13/11
Pubblichiamo questo interessante articolo pubblicato nell’ aprile 2000 sulla Rivista del Manifesto ricordando il suo autore, di recente scomparso, Lucio Magri. Note sulla scuola Lucio Magri “L’uomo moderno dovrebbe ...
Pubblichiamo questo interessante articolo pubblicato nell’ aprile 2000 sulla Rivista del Manifesto ricordando il suo autore, di recente scomparso, Lucio Magri.
Note sulla scuola
Lucio Magri
“L’uomo moderno dovrebbe essere una sintesi di quelli che vengono ipostatizzati come caratteri nazionali: l’ingegnere americano, il filosofo tedesco, il politico francese, ricreando per così dire l’uomo italiano del Rinascimento, il tipo moderno di Leonardo da Vinci, divenuto uomo massa o uomo collettivo pur mantenendo la sua forte personalità e originalità individuale. Una cosa da nulla, come vedi”.
(Antonio Gramsci, da una lettera alla moglie)
Fin dai primi numeri della rivista abbiamo avviato un’analisi e una riflessione sulla “questione scuola”. Dopo la grande giornata di lotta degli insegnanti, e l’approvazione della legge sulla parità scolastica, la discussione si è allargata sulle colonne del manifesto quotidiano, con contributi di operatori diretti e di esperti1.
Cercherò di intervenirci anch’io pur non essendo uno specialista, per azzardare un ragionamento generale e avanzare qualche proposta, che altri potrebbero correggere, approfondire, rendere molto più concreti.
Tenterò di sostenere: che la trasformazione della scuola oggi è “la madre di tutte le riforme”; che l’attuale scuola di massa – ovunque e in ogni sua forma – vive una crisi profonda, delude molte delle speranze e contraddice molte delle finalità su cui era nata; che la linea lungo la quale tale crisi viene affrontata – privatizzazione strisciante – anziché risolverla l’aggrava. E di mettere in evidenza alcuni nodi problematici che potrebbero avvicinarci all’idea di una scuola alternativa e delle sue funzioni sociali.
Sulla centralità del problema della scuola – sarebbe meglio ormai dire del sistema formativo allargato – tutti sembrano, in questo momento, essere d’accordo. Non siamo nell’epoca della società dell’informazione? Non è il “capitale umano” la riserva più importante, più reperibile e solo parzialmente utilizzata per reggere la competitività economica e aprire al mondo sorti progressive e magnifiche? Non sono evidenti i segnali di un imbarbarimento anziché di un incivilimento, cui l’espansione della ricchezza materiale si accompagna?
A mettere in guardia sul carattere retorico di questo generale consenso, e a mettere in luce le intenzioni molto diverse che vi sottostanno, dovrebbero spingere subito banali constatazioni: il fatto che la spesa pubblica per l’istruzione – in Italia e altrove – ha ristagnato o si è addirittura ridotta negli ultimi due decenni rispetto al prodotto interno lordo; e il fatto che ormai da molto tempo crescono in ogni paese consapevolezza e denuncia dei “fallimenti” del proprio sistema educativo senza peraltro che ne seguano grandi movimenti nella società né tentativi importanti dei governi, per porvi riparo.
Questa contraddizione non si spiega soltanto con le difficoltà di bilancio o con il rallentamento dello sviluppo economico: perché essa permane anche quando e laddove il bilancio pubblico è risanato, la spinta al consumo privato è impetuosa fino all’indebitamento, e la crisi della scuola direttamente interviene come freno allo sviluppo produttivo. Il fatto è che fin dal primo gradino – l’individuazione del problema e la definizione delle finalità cui commisurarlo – le prospettive politiche e culturali divergono profondamente. Modernizzazione o trasformazione? Riduzionismo e funzionalismo dell’istruzione, o formazione critica e integrale? Siamo o no arrivati storicamente ad un punto in cui diventa necessario e insieme possibile assumere come finalità sociale primaria, oltre alla produzione dei beni e dei servizi, la formazione di un nuovo “tipo umano” generalmente colto e consapevole, e il lavoro non solo come fatica e strumento ma come bisogno e ricchezza? Io ritengo di sì, guardando alle rotture epocali che sono in corso. Ne cito alcune.
a) Scuola e lavoro. Tutti convengono che ci troviamo di fronte ad una nuova fase tecnologica che non solo sostituisce la precedente ma costituisce un salto di qualità: soprattutto perché sempre più incorpora nelle macchine, e assorbe, capacità specificatamente intellettuali del lavoro umano. Ciò comporta, sul versante del lavoro, due movimenti. Da un lato cresce, per una minoranza, l’importanza di un lavoro di progettazione, di direzione e di gestione dei processi produttivi per il quale è richiesta competenza professionale molto alta e una piena identificazione con i valori dell’efficienza e della competizione; dall’altra parte si estende ulteriormente a nuovi settori e a nuovi livelli l’area del lavoro parcellizzato, esecutivo, precario, deprivato di un “mestiere” acquisito e arricchito attraverso una pratica (post-tayloristico per un verso, iper-tayloristico per l’altro). Entrambi comunque incalzati da una incessante e rapida innovazione, dalla necessità di aggiornamento nelle competenze e nei ruoli. Perciò una formazione di base in grado di insegnare ad imparare, prima e più che fornire una specializzazione professionale, diventa oggi più importante, tutela e definisce in partenza tutta una vita, garantisce una capacità generale di aggiornamento nel proprio ruolo, e tanto più è indispensabile per fornire a ciascuno qualche possibilità di superare barriere sempre più definite dalle risorse intellettuali.
All’inverso, una scuola di base povera, precocemente professionalizzante e selettiva, costituisce un limite pesante alla mobilità sociale, rende le “pari opportunità” una mistificazione, lascia sul terreno semilavorati umani obsoleti ed emarginati e frena lo stesso sviluppo economico.
b) Il crollo della “tradizione”. È un aspetto essenziale e trascurato della rottura epocale che attraversiamo. La formazione delle conoscenze, della personalità, di un’etica individuale e collettiva, è stata garantita per molti secoli da una tradizione, cioè da un patrimonio lentamente accumulato, diversamente distribuito e vissuto dalle classi, ma che costituiva comunque un riferimento autorevole e comune, trasmesso da istituzioni forti e radicate. A lungo la scuola – che pure per sua natura metteva in crisi questo sistema inserendovi, almeno per le classi dirigenti, il principio della scienza, della storicità del sapere e dei valori – si è comunque appoggiata alla tradizione e vi si è riferita.
Nel corso dell’ultimo secolo, e sempre più rapidamente, tale ruolo della tradizione è crollato, nel bene e nel male, cioè come patrimonio e come superstizione: le stesse forze conservatrici non sono più in grado di impugnarne la bandiera se non retoricamente. Crollato come principio, crollato nei suoi contenuti. Rotture straordinarie di modi di pensare e di agire immemorabili: ad esempio la gerarchia sociale riconosciuta come ordine naturale, la morale sessuale dominata dalla finalità della procreazione e dalle “leggi di natura”, la divisione dei ruoli tra uomo e donna nel patriarcato. E sono entrate in crisi le istituzioni che la assicuravano: la famiglia larga e stabile, le parentele, le piccole comunità, la Chiesa come maestra di vita quotidiana. Infine anche istituzioni alternative che la rielaboravano in nuovi ambiti e in forme diverse (i partiti di massa come soggetti pedagogici, i sindacati e le nazioni come ambiti di identità collettive).
Questa constatazione è stata messa in rilievo, da Anthony Giddens, nei suoi primi e migliori libri, con il concetto di “società riflessiva”: ogni uomo può e deve costruirsi ormai una propria visione del mondo. Ma in quel concetto viene censurato un elemento aggiuntivo, essenziale. La libertà di ciascun individuo, molto più radicale del passato, si modella e si orienta in un confronto impari con poteri formativi di fatto ancora più vincolanti e invasivi: il mercato, i media, la struttura imperiale del potere culturale in cui si selezionano e si integrano i nuovi intellettuali, i consumi indotti e gli stili di vita omologati. Tutti poteri forti i quali, più che formare personalità o spirito critico, destrutturano la coscienza, relativizzano la morale, passivizzano l’individuo, soprattutto per tutto ciò che non è direttamente funzionale alla produzione e al consumo delle merci o misurabile con il parametro del reddito.
Senza una scuola capace di rompere tale circolo vizioso, di offrire una base di partenza che sostituisca la tradizione ma attrezzi l’individuo a difendersi dall’effimero, che gli fornisca un patrimonio di conoscenze, di valori e di spirito critico su cui ordinare e selezionare i messaggi confusi e manipolati dalla “società dell’informazione”, la “società riflessiva” diventa al tempo stesso disgregata e gregaria, intellettualmente povera, eticamente casuale. E non a caso vi si producono impotenti e degenerate separazioni etniche, fondamentalismi religiosi, intolleranze razziali e domande di repressione.
c) La crisi della democrazia politica. È evidente a tutti che, proprio nel momento del loro apparente trionfo, le istituzioni della democrazia rappresentativa stanno vivendo una crisi radicale. Non solo per il declino degli stati nazionali e il trasferimento del potere reale in sedi lontane e incontrollabili dalla sovranità popolare. Ma per una contraddizione più radicale. Le scelte della politica, una politica che voglia incidere realmente sul corso delle cose, sono sempre più complesse, presuppongono la chiarezza di un progetto generale e di lungo periodo, e contemporaneamente avrebbero bisogno di un consenso duraturo, di una partecipazione continua, di una capacità diffusa di gestione. Ma per ciò occorrerebbe un cittadino ad alta competenza politica, capace di capire, di scegliere, di controllare. Senza tale presupposto il suffragio universale si riduce a mera apparenza, ad un mercato in cui prevalgono interessi particolari e umori oscillanti, nel quale le élites intervengono con la manipolazione ma dal quale esse stesse sono vincolate e corrose, e anche le decisioni migliori diventano impotenti perché non trovano forze e intelligenze capaci di realizzarle. Senza una scuola che formi il cittadino, dotandolo di conoscenze adeguate e di uno spirito pubblico (non parlo ovviamente delle banalità dell’educazione civica), la politica torna ad essere amministrazione, i governanti diventano una corporazione, il popolo bambino, ingenuo ed ostile.
d) La nuova frontiera dell’ingegneria biologica. Dalla scienza che indagava e trasformava la materia inerte stiamo passando a quella che può trasformare la materia vivente. Interdire quel confine non è possibile. Non solo perché troppo forte è la spinta a varcarlo. Ma perché varcarlo è necessario per combattere vecchie e nuove sofferenze, per garantire anche solo la sopravvivenza di un mondo sempre più popolato e di una specie che pretende di non rassegnarsi alla selezione naturale, facendo sopravvivere anche i più deboli. La manipolazione genetica – biologica e psichica – inserita in una società di mercato apre però due prospettive inquietanti: da un lato il potere che ne deriva alle grandi società multinazionali che dispongono delle colossali risorse necessarie alla ricerca e del diritto di brevettarne i risultati secondo logiche di profitto; dall’altro lato il potere dell’individuo consumatore, con la scarsità di conoscenze e di criteri etici adeguati ad esercitarlo con razionalità. A quali finalità comuni, con quale valutazione dell’attivo e del passivo generale e di lungo periodo, a quale concezione dell’uomo e del suo destino, vanno sottoposte le decisioni che sono connesse a questa nuova frontiera, a quale etica vanno commisurate le stesse regole giuridiche che interdiscono certi territori o certi comportamenti?
La formazione della personalità, un’etica vissuta e condivisa – su temi che il senso comune non è più in grado di valutare, quando il progresso non coincide più con l’incivilimento, e i limiti entro i quali la libertà individuale non danneggia quella altrui sono più incerti – assumono un valore del tutto nuovo. Potrei proseguire in queste considerazioni. Ma già queste bastano a farci capire come e perché la trasformazione del sistema formativo, su scala e con caratteri impensati, sia oggi la madre di tutte le riforme: incrocia tutti i temi fondamentali del futuro, è la leva necessaria per orientare l’insieme della società e anche lo strumento indispensabile per costituire un soggetto, un blocco storico riformatore che invece la spontaneità sociale continuamente disgrega, condanna all’integrazione subalterna o alla marginalità e alle ribellioni disperse.
Servono, forse, in qualche misura, anche a farci capire quali risorse ed occasioni nuove comincino ad esistere per tentare tale trasformazione: ad esempio la lunga durata del tempo di vita che già oggi la scuola occupa e non riesce a bene impiegare; gli strumenti che le offrono tecnologie che permettono di alleggerire l’intelligenza da funzioni meccaniche e ripetitive, di addestrare alla ricerca, di dare concretezza a conoscenze non puramente astratte, ma a condizione che vengano usate come ausilio e non come sostituzione di un insegnamento che “insegni ad imparare”, e fornisca all’individuo una griglia concettuale che organizzi le informazioni e produca significati.
La formazione consapevole di un “nuovo tipo umano” diventa insomma una finalità sociale prioritaria. Non basta certo la scuola a fornirla, ma ne è condizione fondamentale.
Ad affrontare questa sfida arriviamo con una scuola non solo inadatta, ma apertamente in crisi.
La scuola di massa è stata e rimane una delle grandi conquiste dell’ultimo secolo. Soprattutto negli ultimi decenni la grande maggioranza dei giovani è entrata nella scuola secondaria, vi resta fino all’adolescenza inoltrata, una buona parte prosegue più avanti. In Europa – più tardi e stentatamente in Italia – questa nuova scuola ha assunto un carattere avanzato e coerente: scuola pubblica, obbligatoria e gratuita, unificata nei programmi di base, con garanzie della libertà di insegnamento. Il suo obiettivo era di abbattere le barriere sociali, di offrire pari opportunità e un avanzamento culturale generale. La democratizzazione, una vera rivoluzione in una istituzione fondamentale: entravano all’improvviso nella scuola secondaria e superiore, in modo pieno, masse che non avevano alle spalle un retroterra familiare e sociale che le avessero preparate o le sostenessero in questa prova, e vi entrava “l’altra metà del cielo”, le donne, rimaste per secoli confinate in un ruolo altro e separato.
Una tale novità materiale implicava però una trasformazione radicale, di programmi, di metodi, di modi di funzionamento. Tale trasformazione non c’è stata, o è rimasta superficiale. Quanto al funzionamento, è stata certo riconosciuta la spinta soggettiva e oggettiva contro la “selezione”: ma non concentrando le risorse per suscitare in tutti un coinvolgimento creativo in un processo culturale per il quale non avevano dall’esterno stimoli sufficienti, né mettendo in relazione diretta conoscenze impartite ed esperienze concrete; bensì dando alla selezione maglie più larghe, permettendo di proseguire anche a chi restava indietro e liberalizzando gli accessi all’Università. Quanto ai contenuti, si è ridotto l’insegnamento del latino e della cultura classica, ma senza sostituirlo con un insegnamento realmente rinnovato della lingua, della storia e della filosofia, né integrarlo con nuovi e decisivi settori della cultura moderna (l’economia, la sociologia, la geopolitica); si è esteso l’insegnamento della scienza, riducendo il ruolo centrale che vi avevano avuto la geometria analitica e la fisica classica, ma solo aggiornandolo, senza introdurre conoscenze epistemologiche e di storia della scienza che rendessero i nuovi caratteri della scienza moderna comprensibili e accessibili2. In sostanza non una scuola “alta” per tutti, solo una scuola più facile, produttiva più che di veri interessi culturali e di autonome capacità di ragionamento, di un “semilavorato intellettuale”. Non voglio dire con questo che non ci sia stato un generale elevamento, ma solo che quell’elevamento non ha corrisposto adeguatamente alle possibilità ed alle finalità.
Per una fase, a quel vuoto di riforma ha supplito, dall’interno e dal basso, lo sforzo innovatore di una generazione di insegnanti stimolata dal grande sommovimento culturale degli anni ’60 e ’70, e soprattutto esso è stato compensato largamente da una generale tendenza verso una maggiore eguaglianza e una maggiore partecipazione politica e sociale che concorrevano dall’esterno alla democratizzazione.
Negli ultimi decenni però queste sinergie sono venute meno. Il processo sociale è tornato ad essere differenziante, nel lavoro e nel reddito, la struttura del territorio ha consolidato queste differenze ghettizzandole, e sono enormemente cresciuti il peso e l’efficacia dei mezzi di comunicazione di massa nella forma prevalente della commercializzazione, dell’intrattenimento, del messaggio confuso che abituava i bambini, prima e durante la scuola, gli adulti dopo, a forme più facili e passive di consumo culturale. Nel mercato del lavoro sono diminuiti i ruoli più faticosi, si richiedeva qualche conoscenza in più a tutti, ma restava circoscritta l’area entro la quale un alto livello culturale potesse esprimersi: alla promessa della scuola di massa non corrispondevano sbocchi professionali adeguati.
Cosa è accaduto quindi della e nella scuola di massa?
La prima vittima è stata l’idea della scuola democratica. Si è venuto determinando all’interno stesso della scuola pubblica e unificata un ritorno nei fatti della discriminazione sociale: istituti collocati in zone e quartieri diversi, frequentati da diversi strati sociali, pur con la stessa denominazione o con gli stessi programmi o per gli stessi diplomi hanno insegnanti diversi, producono risultati educativi diversi, offrono sbocchi diversi.
È ciò che Chauvel – sulla base di dati illuminanti della pur avanzata situazione francese – ha definito “demografizzazione” e non “democratizzazione” della scuola.
Ma in qualche misura vittima è stata anche la scuola migliore. La sua capacità formativa di pensiero critico, di una cultura complessivamente organizzata, di una capacità individuale a programmare la propria biografia, della scelta di una propria vocazione. Anche per una parte delle classi dirigenti la scuola secondaria è diventata un’area di parcheggio, che si estende spesso all’università in un’adolescenza anormalmente prolungata. I dati e le ricerche sul nuovo analfabetismo (nuovo perché coinvolge anche chi è stato a scuola molti anni, e perché misura non solo incapacità alfabetica in senso stretto, ma anche incapacità di interpretazione di un testo); i dati della lettura di libri e giornali (stagnanti anche nelle classi superiori); i dati rilevati con i test di cultura generale anche rivolti a studenti universitari, sono conosciuti e scoraggianti. L’esperienza di ciascuno, quando rifletta sul livello delle relazioni e delle conversazioni, ce ne fornisce quotidiana conferma.
La risposta a questa crisi – nei fatti e nelle intenzioni – è, come su ogni altro terreno, quello della privatizzazione, dell’imitazione del “modello americano”. Quando parlo di privatizzazione non mi riferisco solo o tanto al finanziamento (o alla crescita del numero, ancora modesta) delle scuole private, che pure ne è il primo segno rivelatore e ha attirato giustamente l’attenzione, per il conflitto che apre con norme prescrittive della nostra Costituzione. Mi riferisco più in generale ad un processo di privatizzazione della stessa scuola pubblica. Avviene qui ciò che già da tempo è avvenuto nel settore della televisione e avanza in quello della sanità. Un sistema integrato pubblico-privato nel quale il primo, pur essendo prevalente, assume gradualmente la logica e la finalità del secondo.
Privato, in questo caso, significa tre cose fondamentali: non più solo la differenziazione ma la concorrenza tra le scuole per avere i migliori insegnanti, allievi più dotati e più numerosi, con connessi anche vantaggi di carriera e di prestigio; conseguentemente, l’integrazione diretta tra scuola e società nella forma di un rapporto subalterno tra la scuola e l’impresa e di un ruolo funzionale della scuola rispettto al mercato del lavoro così come è immediatamente dato; infine, quanto al destinatario dell’istruzione, la sostituzione di un soggetto sociale cui assicurare un diritto universale, con un soggetto individuale come cliente di servizi alternativi tra cui scegliere3.
Quali sono i meccanismi più o meno consapevolmente messi in opera in Italia e altrove per sostenere tale processo?
Un ciclo di educazione primaria più e non meno precoce e differenziato nella scelta professionale. L’autonomia delle scuole centrata più sull’autonomia finanziaria (in particolare ai livelli alti), gestito dal preside-manager più che dal collettivo docente, stimolata più a moltiplicare materie di insegnamento per renderle aderenti alle richieste dell’impresa o a “impressionare” il cliente, che non a concentrarsi su un asse formativo essenziale. La selezione di una élite di insegnanti, con concorsi e incentivi salariali, sulla base di queste stesse finalità. La più netta separazione, nell’Università, tra cicli brevi di laurea, puramente professionalizzanti, e cicli lunghi per formare ricercatori e dirigenti, e la più accentuata prevalenza dei dipartimenti sulle facoltà, per dare all’insegnamento un carattere più specialistico. La flessibilità dei curriculi individuali (i cosiddetti “crediti formativi”) che garantisce l’autoselezione sacrificando la serietà e il significato di una formazione complessiva. L’introduzione accelerata e approssimativa delle “nuove tecnologie” con un semplice addestramento ad usarle e come surrogato anziché come supporto della ricerca; o della lingua straniera nella forma di un esperanto immediatamente usabile, cui corrisponde un impoverimento della lingua propria (un “inglese maccheronico” che convive con un dialetto nazionale).
Ora, è paradossale, e sufficientemente significativo, un semplice fatto. Proprio nel paese che prima ha imboccato questa strada ed è andato più avanti (ormai in forme quasi grottesche: la massiccia presenza della pubblicità nelle scuole con relativi incentivi agli insegnanti, o la quotazione in borsa di “società per la gestione delle scuole”), da molto tempo e nel modo più implacabile, è in atto una riflessione autocritica su cui convergono, da punti di vista opposti, gli intellettuali, gli specialisti e gli operatori del settore (conservatori, liberal, radical; pedagogisti, sociologi, economisti)4. Quasi tutti, con riflessioni teoriche e ricerche empiriche, denunciano i risultati complessivi e di lungo periodo del modello: l’emarginazione cui la scuola dei poveri condanna, con il suo effetto cumulativo e ghettizzante, il disordine e la violenza nella scuola e dei giovani fuori dalla scuola e il tasso di repressione che deve fronteggiarla5; il decadimento del livello culturale medio del paese (di riflesso astensionismo politico e banalizzazione dei prodotti di consumo dell’industria culturale); la separazione entro barriere rigide tra culture diverse, minoritarie e incomunicanti; ma anche “l’idiotismo specialistico” che ormai frena anche le professioni intellettuali (e, di riflesso, l’impoverimento politico-culturale dei governanti).
Tutto ciò, nel caso degli Stati Uniti, è in qualche modo compensato, o contenuto, da altri meccanismi: le gigantesche somme destinate a “ricerca e sviluppo”, che in parte si trasferiscono sulle università migliori, e la lunga tradizione delle scuole private come fondazioni dotate di un patrimonio proprio alimentato dalle donazioni, che al finanziamento privato danno un carattere almeno a certi livelli non angustamente funzionale; la possibilità di importare da tutto il mondo intellettuali di grande valore, o di reclutare in altri paesi, come studenti per le proprie scuole di eccellenza, cervelli già formati meglio di quanto la loro scuola secondaria fornisca. Tutti fatti empiricamente dimostrati. Ma in Europa tali compensazioni non operano: la privatizzazione che procede è povera, produce assai meno eccellenza, non importa cervelli ma ne è deprivata.
È dunque una risposta perdente, come e più che in altri settori. Perdente sul terreno della formazione generale e polivalente del cittadino e dell’uomo, ma anche su quello della produzione di una classe dirigente e di valori condivisi. La crisi della scuola di massa, per questa strada, permane e si radicalizza.
Se questo ragionamento ha una logica, e si riscontra nei fatti, se ne possono trarre alcune ipotesi da discutere per definire un’idea alternativa di scuola, all’altezza dei tempi.
a) Formazione permanente. È un obiettivo di cui si parla molto e sul quale tanti convengono, ma forse senza valutarne il valore, la portata e la difficoltà. Si tratta di abbattere la separazione tra due tempi: quello in cui si va a scuola per imparare, e quello in cui si usa ciò che si è imparato per lavorare e per vivere. E di intrecciare scuola, lavoro, esperienza fin dall’adolescenza e per tutta la vita.
Già questo semplice fatto, materiale, costituirebbe una rivoluzione che cambia sia la scuola che la vita. Ma soprattutto lo diventa se il concetto di formazione permanente viene assunto in senso pieno e forte. Il che per ora non emerge né nelle intenzioni né nell’esperienza avviata. L’età giovanile resta fermamente quella in cui si va a scuola, o a un certo punto, per necessità, vi si aggiunge un “lavoretto”, o comunque un lavoro precario, che con essa non ha relazione né scambio. Per gli adulti la scuola viene poi proposta solo come recupero o come aggiornamento professionale6.
In questa accezione riduttiva una formazione permanente, se anche ci fosse, e ancora non c’è, lascerebbe inalterato il fatto che la maggioranza degli adulti – come sempre è stato – passano una gran parte della vita senza disporre di sedi e strumenti sociali collettivi specificamente organizzati a questo fine, che permettano di sviluppare le loro conoscenze non professionali e di acquisire una visione più complessiva e creativa della loro stessa professione e del contesto in cui si esercita. Pur avendo, per farlo, un crescente tempo libero e un continuo flusso di informazioni da organizzare e decifrare. Cosicché le loro vere conoscenze e le loro identità culturali restano quelle già acquisite, non aggiornate né usate si smarriscono nella memoria; ed essi perdono contatto con una realtà in evoluzione rapida, devono affrontare problemi complessi con le armi del puro senso comune. Il che spiega un fenomeno triste, di cui si fa quotidiana esperienza: l’invecchiamento fisico, a differenza del passato, corrisponde in generale ad un impoverimento mentale e del sistema di relazioni, ad un declino di autorità e di ruolo sociale. È evidente per gli anziani, ma già lo si coglie nel rapporto genitori-figli. L’educazione permanente è affidata alla televisione, e prende forma di hobby.
Se al contrario si assume l’idea di educazione permanente come supporto istituzionale di una generale crescita culturale e professionale, allora emergono colossali problemi: grandi risorse materiali e umane da investire, riduzione finalizzata del tempo di lavoro e di quello di cura cui sono inchiodate le donne, metodi e contenuti nuovi dell’insegnamento. Quando infatti il rapporto tra studente e insegnante si stabilisce tra adulti, la comunicazione, per stimolare interesse ed essere accettata, deve assumere molto di più il carattere di una discussione e di una ricerca, ne deve risultare più evidente l’utilità in rapporto all’esperienza e insieme fornire le conoscenze necessarie ad elaborare l’esperienza in forma intellettuale. Ciò esige una enorme invenzione culturale e organizzativa. Ma solo così la formazione permanente diventa un elemento di una nuova idea della scuola e della sua funzione, rivolta alla effettiva promozione sociale e a fare di tutti realmente degli “intellettuali”.
b) L’autonomia della scuola. Era e resta una rivendicazione essenziale, non solo contro il vecchio burocratismo e centralismo, ma contro la trasmissione di un sapere codificato e contro il nuovo conformismo implicito nell’industria culturale di massa; e per offrire uno spazio alla elaborazione di “significati” che non sia imposta dall’alto. Questo è infatti il punto sul quale, all’inizio, la “riforma” di Berlinguer prometteva una novità interessante e si è incontrata con la sperimentazione molecolare già avviata, forzando le regole, in molte scuole. Ma cosa si intende per autonomia? Qui le prospettive si sono presto divaricate.
Autonomia anzitutto didattica, gestita dal collettivo insegnante e discussa da studenti e genitori, o autonomia prevalentemente organizzativa e finanziaria gestita da un preside-manager con l’ottica dell’azienda? Come si distribuiscono le risorse umane e materiali: si concentrano prevalentemente nelle situazioni a rischio, per compensare handicap di partenza e ambiente circostante più difficile, o, con l’automatismo del mercato, là dove è più facile raggiungere buoni risultati?
Come si valutano tali risultati, in base al livello di “prodotto” mediamente ottenuto, o anche in rapporto all’input che la scuola è riuscita ad immettere rispetto alla condizione di partenza? Come si giudica e si premia a qualità del lavoro di un insegnante, solo in base a ciò che sa o anche e soprattutto su ciò che sa insegnare, la sua assiduità e il suo impegno sul campo? E chi lo giudica, ancora un potere gerarchico attraverso prove concorsuali modernizzate e dequalificate fino all’uso dei quiz, o anzitutto il suo collettivo di lavoro e i suoi studenti, prima con lo stimolo della stima e della disapprovazione, e poi con il riconoscimento accertato del merito? Come si riqualificano di continuo gli insegnanti, e si garantisce loro una effettiva carriera: con frettolosi corsi di aggiornamento per acquisire nuove nozioni, oppure con periodici distacchi presso l’Università, in un lavoro superiore di ricerca e sviluppo intellettuale?
Infine, e forse soprattutto, quale obiettivo si assegna all’autonomia, quello di ricercare sul territorio finanziamenti privati adeguandovi l’insegnamento e di conquistare nuovi allievi moltiplicando materie e corsi accattivanti e facili, oppure quello di elaborare sul nucleo essenziale e duro dell’insegnamento un progetto culturale e metodi migliori?
Insomma, cooperazione competitiva entro un quadro di finalità socialmente programmate, o concorrenza in un particolare mercato secondo parametri che il mercato in generale impone?
Anche qui emerge un elemento fondamentale di scuola alternativa: una discriminante non solo tra scuola pubblica e scuola privata, ma altrettanto tra scuola pubblica e scuola statale.
c) L’asse formativo. È il tema più impegnativo e più importante. La vecchia scuola ha sempre avuto un preciso asse formativo che organizzava le conoscenze in un’interpretazione del mondo e trasmetteva valori. Su di esso si formavano le classi dirigenti, ad esso si riferivano anche coloro che lo contestavano, e si trasferiva “in pillole” nel senso comune delle classi subalterne. Questo asse formativo aveva una base comune in tutto l’Occidente (l’insegnamento del latino e l’umanesimo, il metodo scientifico classico centrato su matematica – geometria – fisica), su cui si innestavano culture nazionali emerse da grandi rotture ed innovazioni politiche e culturali (l’idealismo e lo storicismo tedesco e italiano, il razionalismo cartesiano e l’illuminismo francese, l’empirismo anglosassone e così via)7.
Una scuola pubblica alternativa può e deve avere oggi un suo nuovo asse formativo comune e caratterizzante, e quale? Questo è l’interrogativo più difficile, quello meno presente nell’attuale dibattito, e anzi spesso rifiutato in radice. Non a caso.
La destra non può affrontarlo e non ha bisogno di affrontarlo. Non può perché i suoi valori fondanti (Dio, patria, famiglia) non reggono il confronto, e non li pratica lei stessa. Non ne ha bisogno, perché la scuola privatizzata, e l’esercizio del ruolo, producono di per sé il “tipo umano” che le occorre per le funzioni dirigenti (efficienza, competizione, reddito), e la televisione basta a formare il “tipo umano” del consumatore e del cittadino gregario.
La sinistra porta invece in sé il senso di colpa e il sentimento di disincanto per aver proposto in passato un’ideologia organica che ha prodotto dogmatismo e totalitarismo. La sua maggioranza moderata accetta quindi l’ideologia della “fine delle ideologie”, coprendola con una retorica – l’umanitarismo, i buoni sentimenti, le buone intenzioni – che non richiede un pensiero rigoroso e non sopporta una pratica coerente. Anche la sua minoranza radicale – che pure aborre il mercato, ma nutre una grande fiducia nella spontaneità sociale e nelle esperienze molecolari diffuse – diffida di un asse educativo unitario per la scuola pubblica, trasferisce il problema alle singole scuole, in rapporto con la realtà locale, e in sostanza lo risolve fondamentalmente in una scelta di metodo pedagogico (il dialogo, il confronto, la creatività dal basso).
In quest’ultima visione c’è indubbiamente un’importante verità, una soluzione parziale: l’idea del rapporto diretto scuola-società e l’importanza dell’autoeducazione collettiva. Ma, a mio avviso, anche una pericolosa illusione: perché il “locale” è a sua volta dominato da poteri e interessi ancora più pressanti perché più vicini, che pongono richieste più immediatistiche e corporative e inventano identità rozze e improvvisate; ed è comunque inserito in un sistema globalizzato e in una cultura omologante e pervasiva che lo sovrasta e lo travolge ancor più facilmente.
È la stessa trappola in cui cade anche tanta parte del mondo cattolico che pensa di resistere alla scristianizzazione, al materialismo consumistico, all’individualismo edonistico, al vuoto di significati e di valori, combattendo sulla trincea della scuola confessionale e aprendo invece la strada alla scuola del mercato.
Io credo invece che un asse formativo in senso forte, che indirizzi la scuola pubblica senza imporvisi, sia importante, e che Gramsci ci possa fornire un contributo a ricercarlo. Gramsci non inclina certo alla scuola facile, leggera, continuazione del gioco e sede solo del dialogo creativo. Anche su questo terreno non è un liberale né uno spontaneista: il primo compito della scuola, dice, è di far capire la – e abituare alla – fatica (perfino muscolare) del lavoro intellettuale. Egli critica certo, radicalmente, la scuola tradizionale, nel metodo e nel contenuto; per il suo carattere autoritario e astratto, e per il suo carattere di classe, ma senza negarne la verità: cioè l’obiettivo di formare intellettuali organici. La scuola cui pensa non è nuova solo perché vi possono accedere tutti, e non è un terreno neutro: è il campo di una battaglia per l’egemonia, forma una visione del mondo e un metodo di pensiero. Perciò Gramsci tenta di definire un nuovo asse formativo, come aspetto e sanzione di una più generale lotta culturale con la quale il proletariato si trasforma in classe dirigente, la lotta di classe si eleva ad un livello etico-politico. Il collegamento con l’idea di partito come intellettuale collettivo e di “rivoluzione intellettuale e morale” è esplicito.
Ma l’asse formativo che propone non è affatto – come sarebbe stato nelle esperienze del “socialismo reale” – l’insegnamento del marxismo-leninismo. La sua ricerca si indirizza invece su di una scuola critica centrata sull’insegnamento della storia e della scienza, ma l’una e l’altra ridefinite, anzi rovesciate. Vale a dire su uno storicismo non idealistico ma materialistico, dunque analizzabile con metodo scientifico e con le nuove scienze umane, e una scienza antipositivista perché letta e orientata da un progetto e da un meccanismo sociale. Alla base di tale rovesciamento – ciò che sovverte il vecchio dogmatismo e impedisce anche al marxismo di congelarsi in una ideologia – è l’idea, anche per la scuola, del nesso dialettico tra teoria e prassi (dunque anche scuola-lavoro, scuola-società). Ciò che spinge, e continuamente ridefinisce la conoscenza del passato è il presente, sono i problemi che vi insorgono e da essa chiedono illuminazione (come per Marx: è l’uomo che spiega la scimmia, non la scimmia l’uomo); ciò che salva la scienza dalla riduzione positivistica e oggettivizzante è il rapporto critico e creativo con la tecnica e con la pratica sociale che l’indirizza (la “scuola politecnica”). Così ogni generazione si inserisce in un continuum storico, e vi interviene per modificarlo, e così la vita individuale assume un significato non contingente e non casuale.
Ora, non c’è dubbio che in questa proposta fosse presente un’impronta organicistica, il rischio della risoluzione dell’individuo nella sua classe e nel suo progetto collettivo, ad un passo dalla “religione laica” e quindi di una scuola di parte. E di fatto anche i comunisti italiani varcarono quella soglia e più tardi, per ritrarsene, rinunciarono a quella ambizione.
Esiste oggi la possibilità di riprendere quel filo di discorso superandone i limiti ed evitandone le conseguenze negative?
Lo scritto di Marcello Cini apparso sulla nostra Rivista8 mi pare molto utile per affrontare tale interrogativo con grande apertura critica e in termini nuovi. In due punti.
Il primo, che richiederebbe allo stesso Cini qualche chiarimento, riguarda la “difesa delle diversità”, individuali e sociali oltreché naturali, come valore che Marx avrebbe oscurato. Io penso che questo “oscuramento” andrebbe imputato a una certa tradizione marxista- economicista e statalistica – e solo in piccola parte e per un aspetto molto particolare a Marx stesso (il quale non era certo sostenitore di un egualitarismo primitivo, e definiva il comunismo anzitutto come regno della libertà, anche individuale, premessa di una piena fioritura delle differenze nei bisogni e nelle vocazioni, che però presuppone un mutamento del sistema economico-sociale). Ma resta il fatto che garantire le diversità è oggi più importante che mai: non solo per opporsi ad un mercato che materialmente e culturalmente le riduce e le ordina ai propri fini, ma anche e soprattutto per riconoscere, assumere, e far agire tali diversità per formare un soggetto della trasformazione che il proletariato – da sempre stretto, nel suo ruolo sociale immediato, tra subalternità e negazione assoluta, e oggi più frammentato – non è in grado da solo di esprimere.
Di più: tali diversità che potrebbero concorrere al blocco storico della trasformazione – e questo è l’elemento che anche in Marx non era chiaro – non sono pienamente riconducibili al conflitto di classe ma esprimono anche contraddizioni materiali più antiche (residui delle “forme che precedono”) e al tempo stesso anticipano contraddizioni della futura società postindustriale (nuovi bisogni e nuovi soggetti). A me pare evidente il riflesso enorme che tale riconoscimento può avere sulla scuola e il suo asse culturale. Penso, tanto per fare solo qualche esempio, a quanto di nuovo e di sconvolgente può venire nella ridefinizione continua di tutto il patrimonio culturale, se lo si riconsidera dal punto di vista emergente della differenza femminile e della fine del patriarcato, da quello della questione ambientale9, da quello delle civiltà emarginate dal pensiero e dalla storia occidentale e che oggi concorrono in una società multietnica.
Ma, per comprendere questo discorso di Cini ed evitare pericolosi equivoci, occorrerebbe chiarire meglio il senso che si può dare alle diversità, quando si passa da un ordine naturale – prevalentemente casuale e deterministico – ad un ordine umano. Nel primo caso a regolarle e a deciderne presiede la logica della selezione del più forte e del più adatto, una logica che, al massimo, si può chiedere all’uomo di non violentare distruggendone l’equilibrio. Ma nel secondo caso le diversità, più che essere garantite, devono entrare in comunicazione, reagire reciprocamente, produrre un avanzamento nel patrimonio comune e riprodursi in forma nuova, a un livello superiore. Perciò in un processo educativo deve esistere contemporaneamente un pluralismo e un tessuto comune, la competizione tra diversi e la sintesi provvisoria, autonomie e asse culturale unitario10.
Ancora più importante, e più limpido, è un secondo stimolo che il discorso di Cini offre. Laddove, partendo dall’interno della più moderna ricerca scientifica, egli afferma che sta crollando il muro tra scienza naturale e scienze umane, tra mente e corpo, tra verità scientifica e giudizio etico. Qui il rapporto con la questione della scuola è ancora più diretto e fecondo. Si delinea storicamente la possibilità di introdurre più pienamente il metodo scientifico nella ricerca storica (integrandola con l’economia, la sociologia, le dottrine politiche, le letterature comparate), e di far emergere il valore della storia, lo spazio dell’etica, il peso dell’intenzione nella ricerca scientifica e nella sua applicazione tecnologica. Allora quella che in Gramsci era solo un’ipotesi piena di rischi, per definire un asse formativo comune ma non dogmatico, rigoroso ma non astratto, con un vai e vieni tra presente e passato, tra una disciplina e un’altra, tra conoscenze ed esperienze, può essere meglio definita e più concreta. Anche se è evidente quale rivoluzione culturale, dentro ma anche fuori dalla scuola, quali nuove conoscenze, competenze e modificazioni del senso comune, tutto ciò presuppone.
Si coglie allora pienamente il nesso reciproco tra i principali nodi problematici intorno ai quali potrebbe crescere un’idea alternativa della scuola e del suo ruolo sociale: educazione permanente, autonomia cooperativa, nuovo asse formativo. Qui si è solo cercato di proporli approssimativamente, per stimolare una discussione che li verifichi, o li corregga, dia loro più rigore e più concretezza11, ma, mi auguro, senza ridurne la portata e la radicalità dell’approccio.
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